#La Coruña#
La crisi c’è e si sente forte: nelle strade commerciali sono numerose le attività chiuse. Lo sconforto tra i giovani galleghi è evidente. Si parla di trecentomila disoccupati in Galizia. Trecentomila persone che non lavorano. Pur essendo una delle città che più si è arricchita nell’ultimo decennio grazie al settore peschiero e marittimo, al suo porto ed ai traffici internazionali, l’impressione iniziale che ho è quella di una città legata ancora a vecchi modelli gestionali che oggi non danno più sicurezza, sviluppo e sostentamento. Calle Barcelona ad esempio, a metà della Ronda do Outeiro, quella che praticamente va dal mare fino all’interno, non ha resistito. Sono davvero tante le saracinesche chiuse. E ogni giorno i giornali galiziani, da “La Voz de Galicia” a “La Opinión” a “El Correo Galego”. non fanno altro che parlare di imprese in fallimento e povertà dilagante. Per una di queste imprese in modalità “fallimento”, Caramelo, sta lavorando la mia coinquilina e compagna di “Leonardo” Francesca.
A partire dal nome, fin da subito, ho assunto un atteggiamento più protettivo nei suoi riguardi. “Francesco” rappresenta uno dei nomi più importanti della mia vita.
Francesca è sarda, ama la sua terra, il suo mare, la sua gente. Pur vivendo ormai da molti anni a Roma. Ventottenne, laureata in Organizzazione e Marketing per la Comunicazione d’Impresa alla Sapienza di Roma, mi dà l’impressione di rappresentare il tipico “vino buono nella botte piccola”. Ed è lei che mi sta parlando di Caramelo, dal di dentro, dell’aria che si respira e della tensione interna evidente nei discorsi degli impiegati e nello “scappare” a casa appena passa l’ultimo minuto lavorativo. Caramelo chiuderà tutti i negozi all’estero e ne rimarranno solo una decina aperti in Spagna. Forse. Delle migliaia di persone che ci lavoravano, oggi in sede generale sono circa quattrocento, e di questi ne rimarranno a stento cento.
Anche un’altra catena di moda, Blanco, è in processo di fallimento. E stanno affrontando tagli al personale anche grosse realtà come Renfe, la società di trasporti ferroviari. Ho conosciuto due dirigenti cinquantenni di Renfe che stanno vivendo male questi ultimi mesi perché sono costretti a licenziare. Licenziare, molte volte, persone che conoscono da una vita.
“O lo si fa, o si va via. E al posto tuo lo farà qualcun altro”.
Sembra continuare a vivere e a guadagnare solo il gigante Inditex. Ortega, che ha fatto di Arteixo la sua base ed il suo fondo di investimento continua ad espandersi sempre più e a rappresentare una delle poche realtà aziendali in guadagno costante. Il merito, mi dice Francesca, è nel cambiamento del processo di produzione e lancio sul mercato delle collezioni che escono praticamente ogni mese. Per Zara, Pull & Bear, Bershka e via dicendo, le cose vanno sempre meglio. Ho un po’ di amici che ci lavorano dentro ed il colosso galiziano non sembra arrestarsi minimamente. Ora si sta preparando ad invadere il mercato russo con Zara Home.
Oggi splende davvero un gran bel sole. L’Estate non è estate qui. Mi hanno detto che non si arriva mai ai trenta gradi. C’è un po’ di umidità, sarà perché la casa è praticamente a 50 metri dal mare. Dobbiamo solo attraversare la strada. E poi c’è tanto vento. Sempre.
Eppure in questo momento ho tra le mani un segnalibro regalatomi per il “Mese del libro nella città che legge” (Aprile) che riproduce un’opera di Álvaro Cebreiro Martínez dal titolo “La Coruña, el mejor clima de España”, 1934. Il miglior clima di Spagna? Ancora mi interrogo. Sarà che il caldo non è mai eccessivo e tantomeno il freddo. Ma sincero? Preferisco i quaranta gradi all’ombra di Napoli e giù di lì. Qui è piacevole ma non è possibile che a metà maggio, una giornata soleggiata abbia come massima quindici gradi! Giro il segnalibro ed ecco Manuel Curros Enríquez, Aires da miña terra. Saúdo.
Provo a tradurre il galiziano.
Ah! Grande città di La Coruña,
città della Torre Ercolina,
per generazioni ricordo più forte
che di quelle di oggi:
città che sopra i mari
altezzosa alza la testa, che ieri
accogliesti nelle tue mura il braccio
di Maria Pita: che cosa custodisci
nel tuo recinto, che cosa fai
a coloro che ti visitano, che conoscerti non possono
senza provare dispiacere nel lasciarti.
Il risveglio a casa è molto piacevole. Ho una stanza molto luminosa, l’intera casa in realtà lo è. E poi la vista sul mare è la cosa più bella che mi potesse capitare. Si vede l’intero Paseo nel suo snodarsi lungo il profilo della città, simile ad un serpente che striscia, un effetto ottico reso ancora più evidente dalla gente che va e viene. Visceralmente si insinua nei ricordi delle persone. E nei miei.
Penso che rimarrà nel cassetto delle mie più dolci “rimembranze” a lungo.
Dalle finestre di casa esplode in tutta la sua maestosità concreta, la Torre de Hércules, il simbolo della città, il faro romano in funzione più antico del mondo. Sembra essersi fermato il tempo in quell’area. Al I secolo, quando i Romani la costruirono. Mi sa di paesaggio celtico, un po’ come tutta la Galizia, di cui è acclarata la somiglianza con la cultura e il paesaggio di quel popolo. La torre è patrimonio dell’umanità. Ed il 27 giugno saranno quattro anni dal suo inserimento nella lista Unesco. È amata dai Coruñesi e attorno ad essa sono nate numerose leggende. Il re Alfonso X il Saggio, nella sua Storia di Spagna, parlava di quella del gigante Γηρυών (Gerione) che secondo la leggenda, fu ucciso da Ercole. Il mitico eroe greco era venuto alla ricerca del gigante che governava le terre comprese tra il Duero e il Tajo, allo scopo di liberare il popolo dal suo immenso potere. Gerione obbligava ai suoi sudditi di consegnargli ogni giorno la metà dei beni, inclusa la discendenza. Il popolo così chiese aiuto ad Ercole. Lo scontro tra i due durò tre giorni e tre notti, al termine dei quali Ercole ebbe la meglio sul gigante, gli tagliò la testa e la seppellì vicino al mare. Per commemorare la sua vittoria aveva costruito sul tumulo una torre-faro nei pressi della quale aveva fondato una città a cui diede il nome di Crunia, a ricordo della prima donna che era vissuta in quel luogo e della quale l’eroe si era innamorato. Oggi la leggenda rivive tutta nello stemma della città in cui compare la Torre edificata sul teschio coronato di Gerione.
Una leggenda che richiama alla mia mente l’attualità e la crisi della società attuale, dell’economia, soprattutto quella italiana in cui l’individuo ed in particolare la classe politica come Gerione pretendono sempre la metà della ricchezza prodotta. Anzi, magari fosse solo la metà!
Il problema è tutto qui: come è possibile che l’Italia, una delle prime dieci potenze economiche mondiali, stia assistendo alla scomparsa della classe media? Chi mangia non lo fa più come una volta in cui prendeva 50, 60 e distribuiva tra il popolo il restante 50 o 40. Oggi si è arrivati al rapporto di 80/90 a 20/10. Chi ha, vuole sempre di più e chi gestisce il denaro se lo tiene quasi tutto per sé. Non c’è un’equa distribuzione. Il pensiero che fanno le classi politiche si è impossessato del semplice cittadino che pensa “se mangiano loro tutto il denaro pubblico io perché dovrei pagare le tasse o ridistribuire i quattro pidocchi (i più fortunati) che riesco a guadagnare?
È fondamentalmente un cane che si morde la coda.
E lo si vede a tutti i livelli: esempio pratico? Il mio progetto qui nella città della Torre.
Sono a La Coruña grazie ad una borsa di un Progetto Leonardo vinta con un Consorzio toscano, Arezzo Innovazione, che agisce sul territorio coruñese con il tramite della società Integra. La borsa prevede un periodo di tredici settimane, di cui due dedicate al corso di spagnolo e le altre undici settimane di lavoro in seno ad imprese operanti nel settore di professionalità del giovane scelto.
A ciascun partecipante sono assegnati ben 2.765,00 euro per tre mesi. Di questi soldi, io, così come i quattro ragazzi che sono partiti con me, vediamo liquidi solo 400 euro che dovrebbero coprire le spese del viaggio, vitto e trasporti locali. Considerando che solo il biglietto aereo con la low-cost Vueling nelle date da loro decise e da rispettare obbligatoriamente mi è costato 330,00
euro e più 70 euro per andare e tornare da Firenze, anche in questo caso obbligatoriamente, per firmare il contratto…cosa rimane?
Per il trasporto locale sono circa 3,50 euro al giorno che per 20 giorni lavorativi sono circa 70 euro al mese (per i tre mesi sono 210 euro). Il vitto dobbiamo pagarcelo noi e non se ne vanno meno di 5 euro al giorno anche perché non lavori a due passi da casa tua. La società che gestisce i nostri soldi i maniera diretta è la Integra di La Coruña che ci ha messo a disposizione un appartamento, unica nota positiva del progetto. E sto escludendo il fatto che io sia stato fortunato a capitare in una azienda accettabile (ma non è stato così per tutti) ed i 65,00 euro che ci hanno pagato per coprire i costi di assicurazione RCT ed infortuni sul luogo del tirocinio.
La Integra inoltre, referente del Consorzio Arezzo Innovazione, sul territorio gallego si occupa anche di molti altri progetti, facendo muovere un giro d’affari con i fondi europei che va dalle case, ai corsi di lingua, alle imprese che trovano personale a costo zero e favorendo così sempre di più il deprezzamento del lavoro. Oggi le imprese con la scusa della crisi e della mancanza di lavoro non pagano chi lavora per loro anche dieci ore al giorno. E lo sbaglio purtroppo è di noi giovani che accettiamo ciò. Gli stage dovrebbero esistere solo per tre mesi, sei al massimo. Poi bisogna mettere “mano alla tasca”. Considerando anche che ho firmato il contratto in cui c’è scritto a lettere cubitali che gli appartamenti sono sprovvisti di internet e c’è l’obbligo di compilare dei documenti che verranno spediti tramite e-mail la situazione piomba diretta nel ridicolo. Una società che si muove a livello europeo e che si prende per ciascun partecipante 2.750,00 euro, nel 2013, a ragazzi laureati e già con esperienza lavorativa, tra i 25 ed i 30 anni, non gli dà nemmeno la possibilità di essere connessi ma gli invia una mail “le aree gratuite dalle quali può farlo”. Ed io, dopo una giornata di lavoro, torno alle sette di sera a casa, e con il freddo ed il vento che c’è qui, dovrei scendere in mezzo alla strada con il mio computer o chiudermi in qualche bar per potermi dedicare anche solo due minuti a seguire il mio blog, o la mia posta elettronica o per completare un lavoro che sto facendo con l’azienda?
Oppure semplicemente per poter parlare due minuti con la mia famiglia per chiedere a mia madre come sta e come vanno le cose nella mia Italia?
Ma stiamo scherzando?
Cambio argomento.
Potrei dirne molte di più ma riprendo il mio discorso, più piacevole, sulla leggenda della Torre di Hercules. La luce della leggenda. Perdersi con lo sguardo da lassù significa viaggiare. Con gli occhi ed il respiro. Entra il mondo. Nei polmoni. E la gigantesca rosa dei venti ai suoi piedi ti aiuta a pensarti trasportato ora dal maestrale, ora dallo scirocco o dalla bora. Trasportato verso le Americhe di fronte. Ricordo la prima volta che fui lassù, entrando nel mondo ed in me stesso.
La prima volta che salì sul faro ero in compagnia di tre amiche. Ero arrivato a Santiago de Compostela da appena due giorni e le ragazze che vivevano con me, appena conosciute, mi dissero che avrebbero visitato La Coruña. Mi aggregai a loro. Ricordo ancora i chilometri macinati a piedi dalla stazione ferroviaria fin sulla Torre. Ancora oggi, rivedendo il tragitto, mi chiedo come abbia fatto. Ma poi ritorno sempre alla mia vecchia convinzione di quanto sia bello camminare e di come solo camminando si conoscano davvero le città.
Il paseo che arriva alla Torre si trasforma: i supporti dell’illuminazione da bianchi si trasformano in rossi. O almeno così succedeva quasi sei anni fa. Oggi tendono all’arancione. La potenza del sole e dell’acqua. La forza della natura. Nulla le resiste.
Allora ero con Silvana, Elisabetta e Silvia. Con Silvana ho stretto un rapporto importante di amicizia che si è protratto negli anni. L’ultima volta l’ho vista a Bologna, più di un anno fa. Ma i rapporti stretti non sentono il peso del tempo: sono quei rapporti che si basano su di un sorriso ed uno sguardo, al massimo due parole, e ci si capisce. Non c’è nemmeno bisogno di dire “sto bene o sto male”, già lo si è capito.
Di Elisabetta e Silvia custodisco un gran bel ricordo: i miei primi mesi nella terra gallega trascorrevano spesso in loro compagnia. Silvana è andata cambiando negli anni in un modo che non mi sarei mai aspettato. Quella a Santiago de Compostela fu la sua prima esperienza fuori casa. Oggi Silvana vive da sola a Bologna e si divide tra università e ricerca lavoro. Silvana è di Napoli, o meglio un paesino dell’hinterland napoletano, Marano. E sono dell’hinterland anche due dei miei attuali coinquilini Claudia e Marco. E lo era anche Agostino, amico con cui ho condiviso la casa praticamente durante tutto il periodo di un anno vissuto a Santiago de Compostela. Santiago e La Coruna distano tra di loro circa ottanta chilometri e sono collegate sia da autobus che treni e da un buon asse autostradale.
Il mio primo rapporto con la gens galega risale al 2007. I galleghi nel gergo popolare sono ingenui. Così come i catalani sono avari e taccagni. A Madrid sono presuntuosi, gli andalusi sono pigri ed i baschi selvaggi, volgari. In realtà mi sono sempre trovato molto bene con i ragazzi galiziani. Uno dei miei migliori amici è galiziano. Marcos. In questio periodo lo vedo praticamente una setiimana sì ed una no. La mia “memoria de mosquito” simile a quella breve del protagonista di Memento di Cristopher Nolan a volte mi fa dimenticare delle cose accadute da poco ma ricordo quelle accadute tanto tempo fa. Mi è più semplice ricordare momenti passati da anni che cosa abbia mangiato ieri. Di sicuro ho assaggiato la più buona torta di mandorle della mia vita: viene da Viveiro, un paesino nella provincia di Lugo, sulla costa (Rìa de Viveiro). Me l’ha portata Antonia, la mia professoressa di spagnolo dell’Accademia Lingua Viva, bella donna, simpatica e molto affabile. Scherza con tranquillità ed ha un bel sorriso, di quelli che mette immediatamente a proprio agio. Le piace scrivere ed ultimamente mi ha inviato una storia che vorrei mettere su questo mio blog. Ma non vuole: la chiama “timidezza da scrittrice”. Si chiama “la transformacion” ed è un monologo di un bruco che si sta trasformando in farfalla.
Ecco l’inizio:
Silenzio tutt’intorno. Quando aprì gli occhi non sentiva nulla. Oscurità dilagante. Non poteva muoversi. Lo spazio non glielo permetteva. Il corpo completamente intorpidito era vessato da un dolore che lo attaccava in ogni sua parte. I muscoli erano completamente rigidi ed aveva timore di muoverli. Però necessitava urgentemente di spazio. Era molto tempo che non cambiava posizione. Gli mancava quasi il respiro…
Sei un pensiero sensuale. Ascendente. Ingombrante.
Fioravante Conte
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