Veduta da Lungomare Caracciolo

Vive, evviva, il ventre di Napoli

Questo post è stato pubblicato da “Extravesuviana, la voce della provincia extravesuviana” il 20 settembre 2013.

#Napoli, Campania#Italia#

“Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli.” Matilde Serao descriveva con forza le figure della poverissima Napoli, quelle figure particolari che riempivano il ventre di una città strutturata in strade luride e case fatiscenti, vicoli pregni di mercanti e scene di ordinaria miseria. Era la Napoli dell’Ottocento quella della Serao. Oggi, scendo a Porta Nolana, dopo una ennesima vicissitudine in quella Circumvesuviana che un viaggio lo fa ed altri dieci no, e vedo ancora davanti a me quel “ventre di Napoli”. Entro diretto con il vecchio e lento treno rosso e bianco dai sediolini grigi, in un solo vagone, perché “abbiamo dei problemi e per arrivare facciamo funzionare solo una carrozza” mi dice il capotreno. Stipati, attaccati gli uni gli altri, sudati gli uni sugli altri, abbracciati gli uni agli altri, protetti gli uni negli altri.

Il ventre, quella zona in cui si cerca di sopravvivere, di guadagnarsi quel “pane quotidiano” che molte volte il cristianesimo dimentica di distribuire in questo quartiere, Il Pendino, con il suo spaccato di Via Giacomo Savarise, il Mercato puzzolente, il contrabbando, i panni stesi e le urla parlate. “Non è un caso che tutti i fenomeni della vita umana siano dominati dalla ricerca del pane quotidiano, il più antico legame che lega tutti gli esseri viventi, incluso l’uomo, con la natura circostante”: sono le parole di Ivan Pavlov, medico ed etologo russo scopritore del riflesso condizionato. La ricerca del pane quotidiano che lega nelle vicissitudini anche chi vive qui, su questa strada, e nei vicoletti dai nomi meravigliosi come “il Vico del Fico al Mercato” da cui vedo qui e là uscire e sfrecciare motorette con alla guida ragazzini nemmeno di dieci anni. Uno di loro, bruno, con il ciuffo alla Hamsik che ora va tanto di moda, la gomma in bocca masticata a fauci spalancate, bussando all’impazzata e senza casco, forse per non sciupare il ciuffone, grida, facendosi spazio per strada con le urla prima che con l’accortezza. Forse è lui il fico. E forse sta andando proprio in quel mercato che ogni giorno abbraccia l’intera zona. Un mercato in cui vedo ancora la sopravvivenza di chi vende le sigarette di contrabbando su cassette di legno, quelle utilizzate solitamente per la frutta. Alla “cassa” un ragazzino di dodici, massimo quindici anni. Il ciuffo questa volta è come quello dei tronisti di Uomini e Donne, lungo sul davanti, quasi a coprire gli occhi e corto dietro. Forse deve essere sexy nel momento in cui con la mano viene scostato dalla fronte. Viene anche a me la voglia di passarmi la mano tra i capelli. Gioia del tempo che fu. Del ventre di Napoli sulla mia testa non è rimasto nulla, degli anni universitari nemmeno un capello. Nel vero senso della parola.Via Giacomo Savarise continua ad offrirmi sprazzi di vita autentica e nel tratto in cui diventa via Gregorio Mattei ecco sfrecciare all’impazzata altri motorini con due, a volte tre ragazzini, senza casco. “Fa cauro”. Il calore è il pretesto per non indossarlo. Ma forse più che calore è tradizione in questi vicoli. Via Gregorio Mattei sfocia poi nel via vai di Corso Umberto. Mi piace ritrovare i visi e gli sguardi degli anni universitari. La pletora di personaggi che ho ammirato e speravo ogni giorno di incontrare in quei luoghi. In particolare c’è un ragazzo che in dieci anni non è cambiato di una virgola: probabilmente avrà cambiato migliaia di attività, oggi per esempio lo vedo in un negozio di tappeti, ma è sempre uguale. Con un taglio di capelli “a metà testa”, come avrebbe detto una mia cara amica. Si, a metà testa perché stempiato si lascia crescere quel che gli resta. Sembra un sarchiapone, quegli omuncoli da giardino che ogni tanto fanno crescere l’erba sul proprio capo.

Villa Comunale di Napoli

Nel ventre di Napoli. Qui e là scritte che inneggiano alla squadra azzurra, l’unica fede che qui non si abbandona mai. Molti i palazzi fatiscenti con alla base cumuli di immondizia. Di vario genere.  E poi la sede di una banca, abbandonata anch’essa, con segni evidenti di una esplosione alla sua porta. Qualche donna  a pagamento, soprattutto in una delle strade perpendicolari a questa in cui io, imperterrito, scrutando, mi incammino. Incrocio sguardi, non abbasso il mio. A volte forse con troppa sfrontatezza ma nessuno mi dice nulla. Nel ventre la paura di sentirmi dire “Ma k t’ uadd?” (Cosa hai da guardare) ed allora penso a cosa potrei rispondere. Mi entra con prepotenza nei pensieri il primo film, datato 1998, di Cristopher Nolan, Following: il protagonista chiede ad un derubato “Che cosa si prova quando ti svaligiano la casa?”

“Perché non mi chiedi cosa mi abbiano rubato?”. “Perché mi interessano i sentimenti delle persone. Sono uno scrittore.”

Riprendo a camminare, osservo la signora che dal piano di sopra chiede al tabaccaio le sigarette e di un’altra che abbassa il paniere e lascia cadere un pezzetto di carta con la lista della spesa al vecchietto degli alimentari giù al palazzo in cui vive. Ascolto le parole veloci, spezzate, tronche, perfette nel farsi largo tra le grida che provengono da ogni anfratto, vicoletto, portone e finestra. I corni della superstizione, i proverbi stampati che vedo farsi largo gettando un occhio tra le mura dei locali commerciali, irridenti, sfrontati. Una masnada di sacripanti si industria per portare il pane a tavola. C’è da imparare qui. Chi riesce a vivere in questi quartieri di Napoli può vivere in qualsiasi parte del mondo e lavorare dappertutto. O forse sopravvivere.

Il ventre di Napoli è ancora pieno. Vive, evviva, il ventre di Napoli.

Fioravante Conte

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